Tra i nobili umanisti e la piccola nobiltà veneta ebbe particolare risonanza il concetto di villa caro ai romani, che egli reinventò: il luogo ideale in cui trovare rifugio dal trambusto cittadino, per poter condurre un’esistenza di campagna, autonoma e ben provvista di cultura.
La famiglia Saraceno era giunta a Vicenza da Roma verso la fine del tredicesimo secolo. Apparteneva alla nobiltà minore e tra i suoi membri contava uomini di Chiesa, avvocati e medici. La famiglia aveva anche accumulato delle proprietà agricole, apportando migliorie al terreno e introducendo nuove colture e modalità di coltivazione, in questo caso a Finale, vicino ad Agugliaro. Qui la prima residenza di pregio della famiglia fu il Palazzo delle Trombe (inizio del sedicesimo secolo), situato al crocevia nella frazione di Finale (girare a sinistra all’ingresso di Villa Saraceno), così chiamato per i suoi scarichi dell’acqua piovana che hanno appunto forma di tromba.
La villa residenziale costruita da Palladio per Biagio Saraceno venne a integrare una corte agricola preesistente, ben più antica. Biagio (il cui ritratto si ritiene sia posto sopra la porta d’ingresso dalla loggia) incaricò Palladio della costruzione di una nuova residenza, da realizzare sull’asse principale della corte di proprietà della famiglia. La dimora supera in splendore gli altri edifici della proprietà e tuttavia non ne prende il posto, come pare fosse invece l’intento originario del progetto di Palladio, poi pubblicato nei suoi Quattro libri dell’architettura (1570).
Attraverso la Villa Saraceno e gli elementi che si sono conservati, abbiamo quindi la possibilità di ripercorrere l’evoluzione di una tipica villa-tenuta agricola veneta: le strutture medievali profondamente modificate quali la colombaia, del 1500 circa, la “casa vecchia”, del 1520 circa, e i granai, visibili sul lato orientale della corte (1500 circa con modificazioni successive); infine la barchessa, databile tra il diciassettesimo e il diciannovesimo secolo. Leggiamo nei Quattro libri che Palladio aveva previsto due barchesse e dei padiglioni simmetrici, a racchiudere sui due lati il corpo principale dalle proporzioni davvero splendide – padiglioni che tuttavia non furono mai costruiti. Piuttosto, come osservò O. Scamozzi nel 1778, il progetto consistette in varie aggiunte necessarie, con edifici sia preesistenti che successivi. La barchessa attuale, quindi, è l’ultimo di una serie di tentativi – dall’esito meno felice dell’intenzione originaria – messi in atto per realizzare, almeno in parte, l’elegante disegno palladiano.
La posizione dell’edificio è stata studiata attentamente: la facciata è rivolta grosso modo a sud, e l’edificio è allineato in modo tale che l’ingresso della loggia e la porta nord della sala incornicino la vista delle Dolomiti. Tale allineamento svolge anche un’altra funzione, ossia quella di catturare la brezza. Il corpo della villa è sollevato di cinque piedi vicentini per evitare le acque alluvionali. Il corpo padronale, ossia la residenza del proprietario, presentava un’elegante scalinata suddivisa in due rampe, per salire alla loggia rivolta a sud ed alla sala, e per discendere al giardino (il brolo) (le rampe attualmente visibili sono frutto di successive sostituzioni e modifiche). Sui due lati vi erano due appartamenti di due stanze ciascuno. Di queste, una era più piccola, con il soffitto a volta – i camerini – e affacciava sulla corte; l’altra, più ampia – la stanza maggiore e la cucina grande – era rivolta a nord e aveva il caminetto. Le proporzioni delle stanze più grandi, così come edificate, corrispondono a quelle indicate nei Quattro libri: “le stanze maggiori sono lunghe un quadro e cinque ottavi, e alte quanto larghe”. Vi sono una cantina sotto la cucina grande e un’altra sotto il camerino est. Il granaio, posto al piano di sopra, è raggiungibile attraverso un’ingegnosa torre con scalinata all’interno della sala.
Il corpo della villa fu alterato significativamente nel corso dei secoli. Poco dopo la costruzione, alla fine del sedicesimo secolo, furono decorate ad affresco la volta della loggia, la sala, la stanza maggiore ed il camerino del lato ovest, probabilmente per il figlio di Biagio, Pietro. Negli affreschi della sala si è individuata la raffigurazione di una tragedia di Pietro Aretino intitolata Orazia (1546) e, sulle basi di una lettera scritta nel 1552 dall’Aretino a Lucietta Saraceno, si è suggerito non soltanto che l’Aretino (eminente scrittore dell’epoca) abbia visitato Villa Saraceno, ma che l’Orazia possa essere stata scritta a Finale.
Nel 1604 l’erede dei Saraceno, Euriemma, sposò Scipione Caldogno e le migliorie apportate alla villa proseguirono. Le volte del camerino est furono abbattute nel 1659 da Lucietta Thiene Caldogno, quando fu inserito un piano mezzanino nell’appartamento est e aggiunta un’ala orientale; ciò andò a detrimento dell’armonica disposizione delle finestre pensata dal Palladio per le facciate nord e sud. Nel 1798 un grave incendio si propagò dalla barchessa fino al corpo padronale; di conseguenza, si dovettero ricostruire sia i tetti che le stanze del lato est, e in seguito anche la barchessa. Tale evento spiega l’asimmetria dei tetti della villa, ulteriormente danneggiati da un ammodernamento realizzato intorno al 1900. La villa e la relativa tenuta agricola rimasero di proprietà della famiglia Caldogno fino al 1838. Dalla fine del diciottesimo secolo in poi, Villa Saraceno fu utilizzata principalmente come casa colonica; ciò diede origine a ulteriori alterazioni, apportate per comodità d’uso, tra le quali la creazione di tramezzi per suddividere diversamente le stanze. Durante la seconda guerra mondiale fu data in affitto e verso la fine degli anni ’80 del Novecento era ormai vuota e in stato di grave degrado.
Nel 1989 la villa fu acquistata da Landmark Trust, un ente non-profit britannico istituito nel 1965 per recuperare edifici storici particolarmente significativi che versano in condizioni critiche. Una volta restaurati e resi disponibili per una vacanza self-catering, questi edifici diventano un luogo speciale, godibile e al contempo istruttivo per chi vi soggiorna – generando inoltre gli introiti destinati al loro mantenimento. Oggi Landmark Trust si occupa di quasi 200 edifici, sette dei quali in Italia.
La Loggia
È Biagio Saraceno in persona ad accogliere il visitatore dall’alto della porta d’ingresso. Ha appena ricevuto la corona palatina dalla dea posta sopra di lui e regge, con la mano sinistra, il bastone del comando. Indossa un elmo piumato e la corta tunica verde del condottiero dell’antichità. Al di sopra delle arcate interne della loggia si vedono le Vittorie alate, a monocromo ocra, che si radunano per glorificare il patrono suonando le trombe o reggendo le corone d’alloro.
Al centro della volta superiore, entro un’elaborata cornice ottagonale, la dea dell’Abbondanza si staglia su uno sfondo di cielo azzurro. In una mano tiene la corona di un cavaliere dell’impero e un ramoscello d’ulivo, simbolo di pace, che porge a Biagio. Il bastone alato con i due serpenti che regge nella mano sinistra simboleggia pace e prosperità economica (un simbolo associato anche a Mercurio, dio dei messaggeri e del commercio). Nelle due cornici laterali danzano due cherubini o putti alati.
Intorno all’ottagono è posta, in ciascuno dei quattro angoli, una figura femminile a monocromo (Flora): tutte insieme le quattro figure rappresentano i quattro stati della “Santa Agricoltura”. Da destra a sinistra si vedono: il Lavoro della terra (il giogo del bue); l’Irrigazione (la brocca inclinata); il Raccolto (un covone di canne o pannocchie di grano); infine, la Glorificazione della pace (una ghirlanda di ulivo).
Le quattro figure di Flora guardano a quattro scene di forma ovale, a monocromo nero, in cui sono personificate in un racconto la virtus romana, ossia le virtù del cittadino dell’antica Roma, ed anche – forse – le quattro virtù cardinali cristiane: prudenza, giustizia, fortezza e temperanza.
Da destra:
1. Camillo, nominato Dittatore dal Senato, dice a Brenno, capo dei Galli, la profetica frase: “Roma si difende con il ferro, non con l’oro”.
2. Muzio si brucia la mano destra su una fiamma mentre dice al re Porsenna: “Eccoti, affinché tu capisca quanto i Romani disprezzino la vita”.
3. Marco Curzio, giovane cavaliere romano, si sacrifica lanciandosi nella voragine aperta nel Foro, per adempiere all’oracolo secondo il quale l’abisso avrebbe cessato di allargarsi soltanto gettandovi quanto di più prezioso Roma possedesse. Curzio aveva compreso che ciò significava la gioventù e i soldati della città. Il baratro, dopo il suo sacrificio, miracolosamente si richiuse.
4. Il soggetto della quarta scena è meno certo. Un guerriero romano tiene la spada puntata verso una persona seduta su un trono, che tenta, con la mano destra, di pacificare il soldato. Potrebbe essere rappresentato l’Errore di Muzio, che alla rabbia contrappone l’autocontrollo.
L’affresco sulle parete terminale ovest della loggia risale probabilmente al diciottesimo secolo. Un colonnato corinzio con un’alta trabeazione si staglia contro un cielo in cui vi sono alcune nuvole qua e là. Non rimane alcuna traccia, invece, della scena appaiata a questa che si trovava sulla parete est. Il ciclo di affreschi realizzato nella loggia è attribuito all’artista veronese Anselmo Canera (1522-1583). Il ciclo nella volta somiglia ad un altro visibile nella vicina Villa Pojana, risalente al 1550 circa, anch’essa un progetto palladiano.
Sala (salone d’ingresso principale)
Il ciclo di affreschi della sala raffigura la tragedia Orazia (1546) di Pietro Aretino (1492-1556), tra le figure letterarie italiane più brillanti verso la metà del sedicesimo secolo. Il ciclo inizia sopra la porta posteriore. Un uomo siede allo scrittoio, in una stanza nella quale si riconosce proprio la sala della villa. In base a una lettera che l’Aretino scrisse nel 1552 a Lucietta Chiericati Saraceno (cugina di Biagio, acquisita per matrimonio: aveva sposato Gasparo Saraceno, il proprietario della Villa delle Trombe), si
suggerisce che sia rappresentato lo stesso Aretino, ritratto mentre scrive l’Orazia in una stanza che riconosciamo come la sala di Villa Saraceno. Attraverso una porta aperta, la storia ha inizio. Orazio ha vinto uno a uno i Curiazi e galoppa verso l’esercito romano, nei pressi di Roma, mentre l’esercito albano attende sull’altro lato. Di affresco in affresco, iniziando alla sinistra dell’ingresso dalla loggia e procedendo in senso antiorario, davanti ai nostri occhi si dispiega la tragedia di come Orazio uccise sua sorella Celia:
1. L’anziana nutrice porta la notizia che il marito di Celia, uno dei Curiazi, è stato ucciso da Orazio e le mostra, come prova, il collare dorato del marito.
2. In una strada di Roma (raffigurata però con palazzi rinascimentali), Celia lamenta la morte del marito con suo padre, Publio. Suo fratello Orazio, infuriato con la sorella per la sua slealtà, viene trattenuto dai suoi amici, sulla destra. Sulla sinistra Marco Valerio, un feziale romano, invoca la risposta di un alto magistrato.
3. Celia, di nuovo con la sua nutrice, viene portata dal padre dinanzi al magistrato, al cui fianco stanno alcuni ufficiali dell’esercito romano. (L’immagine n. 4 è stata descritta sopra).
5. Il popolo romano segue Celia e la nutrice mentre Orazio parla a Spurio, amico del padre. La prospettiva perfetta degli edifici e della folla converge nell’arco trionfale, su cui sono riportate le lettere S P Q R, motto dell’Impero Romano.
6. Publio richiede la sentenza a uno dei duumviri, il quale siede su un trono tra littori che recano i fasci. Alla sua sinistra stanno Orazio, Celia e la nutrice.
7. Culmina la tragedia: Celia viene pugnalata dal fratello. La nutrice grida, coprendosi gli occhi. Proprio dietro alla vittima è collocato, simbolicamente, il negozio di un macellaio.
8. Il corpo sanguinante di Celia viene portato via, accompagnato dalla fedele nutrice, ora sconvolta. Sulla destra Orazio, il fratricida, chiude la scena esclamando: “Questa è la sorte di colei che osa piangere la morte dei nostri nemici”.
Il soffitto della sala, ornato a cassettoni e dipinto, è originale; i particolari raffinati della decorazione costituiscono un completamento ideale di questa stanza tardo-rinascimentale.
Stanza Maggiore (l’attuale salotto)
Il fregio di questa stanza è dedicato, pare, al mito della fondazione di Roma. Sui sei pannelli sono raffigurate scene tratte dall’Eneide di Virgilio, mentre accanto ai pannelli si scorgono delle immagini di uomini imprigionati (pareti est e ovest), di divinità femminili, di putti alati e festoni di frutti. Le sezioni sono collegate tra loro da quattro ovali angolari decorati a monocromo blu (ora indistinto).
Procedendo in senso antiorario dalla parete sud:
1. Il giudizio di Paride. Seduto su un masso, Paride porge ad Afrodite il premio per la bellezza, una mela d’oro, deludendo Era e Atena – scelta che porterà in seguito alla guerra di Troia.
2. La caverna in cui Didone ed Enea, sorpresi da un improvviso temporale, si amarono (Eneide, Libro IV). Sopra la caverna passano i cacciatori con i cani. Gli amanti si dirigono verso Cartagine, che si scorge in lontananza; Didone porta la corona regale.
3. Enea sbarca a Cartagine (Eneide, Libro I). L’eroe e i suoi tre compagni guardano giù, alle navi ancorate nel porto, mentre i soldati scendono una lunga scala.
Le altre tre scene sono di difficile decifrazione. La sesta potrebbe mostrare l’incontro tra i futuri eroi di Roma ed Enea, nei Campi Elisi (Eneide, Libro VI).
Al centro della parete est, entro una conchiglia, è raffigurato il busto di un giovane vestito da dignitario romano che potrebbe essere uno dei figli di Biagio (Leonardo o Pietro). Il fregio della stanza maggiore è attribuibile, secondo Verlato, a Giovanni Antonio Fasolo (1530-72), benché altri vi ravvisino lo stile di Battista Zelotti (1526-78). Anche nel camerino adiacente vi sono frammenti di decorazione.